Il finale della Coscienza di Zeno, prodigiosamente in anticipo sull’invenzione di congegni atomici e sulle drammatiche preconizzazioni einsteniane, ha destato l’interesse di numerosi studiosi che vi hanno ravvisato non soltanto l’anatema di un darwiniano dileggiatore della psicanalisi, ma soprattutto – ed è il caso di Mario Lavagetto in L’impiegato Schmitz (Einaudi, 1975) – la presenza di «geoclasti» e «biofobi» (nelle parole di Federico Ranaldi, protagonista dell’Imperio, romanzo incompiuto di Federico De Roberto), ossia coloro che odieranno la vita e la faranno saltare «pezzo a pezzo». Dietro all’«astiosa e compiaciuta rivincita del malato contro il crudele teatro dove la sua malattia è stata rappresentata» (cfr. Fabio Vittorini, Apparati e commento a Italo Svevo, Romanzi e «Continuazioni», Milano, Mondadori, 2004), è possibile cogliere la voce stessa di Svevo, già scremata dagli artifici maligni del suo personaggio, voce dunque «diaristica» e intempestiva, in cui il «fuoco d’artificio planetario» dà spazio a macchinari pestilenziali innescati da un uomo creduto normale, ma in realtà «un po’ più ammalato», che ruberà l’«esplosivo incomparabile» per debellare definitivamente le malattie. Se «la vita attuale è inquinata alle radici», questa maledizione quasi evangelica, cioè constatazione di una condizione disgraziata, che racconta le armi come «ordigni fuori del corpo» e invoca un’irraggiungibile e animalesca «salute», riporta le ultime pagine del romanzo a uno scenario apocalittico propriamente detto: purissimo e terribile abbandono dell’uomo al suo desiderio di autodistruzione.
«Un’esplosione enorme». Sul finale de La coscienza di Zeno
Alberto Fraccacreta
2024-01-01
Abstract
Il finale della Coscienza di Zeno, prodigiosamente in anticipo sull’invenzione di congegni atomici e sulle drammatiche preconizzazioni einsteniane, ha destato l’interesse di numerosi studiosi che vi hanno ravvisato non soltanto l’anatema di un darwiniano dileggiatore della psicanalisi, ma soprattutto – ed è il caso di Mario Lavagetto in L’impiegato Schmitz (Einaudi, 1975) – la presenza di «geoclasti» e «biofobi» (nelle parole di Federico Ranaldi, protagonista dell’Imperio, romanzo incompiuto di Federico De Roberto), ossia coloro che odieranno la vita e la faranno saltare «pezzo a pezzo». Dietro all’«astiosa e compiaciuta rivincita del malato contro il crudele teatro dove la sua malattia è stata rappresentata» (cfr. Fabio Vittorini, Apparati e commento a Italo Svevo, Romanzi e «Continuazioni», Milano, Mondadori, 2004), è possibile cogliere la voce stessa di Svevo, già scremata dagli artifici maligni del suo personaggio, voce dunque «diaristica» e intempestiva, in cui il «fuoco d’artificio planetario» dà spazio a macchinari pestilenziali innescati da un uomo creduto normale, ma in realtà «un po’ più ammalato», che ruberà l’«esplosivo incomparabile» per debellare definitivamente le malattie. Se «la vita attuale è inquinata alle radici», questa maledizione quasi evangelica, cioè constatazione di una condizione disgraziata, che racconta le armi come «ordigni fuori del corpo» e invoca un’irraggiungibile e animalesca «salute», riporta le ultime pagine del romanzo a uno scenario apocalittico propriamente detto: purissimo e terribile abbandono dell’uomo al suo desiderio di autodistruzione.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.