L’affidamento in house rappresenta un modello organizzatorio per mezzo del quale la Pubblica Amministrazione si avvale, al fine di reperire determinati beni e servizi ovvero per erogare alla collettività prestazioni di pubblico servizio, di un ente strumentale, di soggetti cioè sottoposti al suo penetrante controllo. Il modello dell’in house si presenta, quindi, quale alternativa all’applicazione della disciplina comunitaria in materia di appalti e servizi pubblici. L’assenza di effettiva terzietà del soggetto affidatario rispetto al soggetto affidante, nonché, la possibilità di considerare il primo quale parte integrante e prolungamento organizzativo del secondo, valgono ad escludere in radice l’applicazione della disciplina comunitaria in materia di appalti e servizi pubblici. Invero, l’istituto dell’in house providing[1] è stato elaborato dalla giurisprudenza comunitaria quale figura da contrapporre alle altre due figure contrattuali attraverso le quali si realizza l’opposto dell’in house la cd. esternalizzazione e cioè: il contratto d’appalto e il contratto di concessione[2]. È noto che le due forme contrattuali presentano tuttavia un dato in comune che presuppongono la diversità non soltanto formale ma anche sostanziale fra i contraenti. Pertanto, ciò esclude a priori l’affidamento diretto. Viceversa, le regole concorrenziali per la scelta del contraente non trovano applicazione nel caso dell’affidamento in house trovando applicazione in tal caso il cd. principio di autoorganizzazione, pure riconosciuto in ambito europeo in capo alla P.A.[3]. Ebbene, per effetto di tale principio l’amministrazione, anziché esternalizzare la realizzazione di ciò di cui ha bisogno, può attendervi in proprio, per esempio attraverso un ufficio, un servizio tecnico, una struttura organizzativa inserita all’interno dell’ente stesso. Il vero problema dell’in house nasce laddove la PA affidi la produzione di beni o di servizi di cui ha bisogno non ad un ufficio e dipartimento interno, bensì ad un soggetto societario formalmente distinto dall’ente pubblico, ciò nonostante controllato dall’ente in maniera così penetrante da potersi dire, tenuto conto della sussistenza o meno di un’autonomia decisionale da parte del soggetto societario, che si tratti di un tutt’uno, una parte integrante, una proiezione organizzativa dell’ente. Si pone l’interrogativo quindi dell’affidabilità diretta e senza gara di prestazioni a soggetti societari diversi dall’ente pubblico affidante.

La discussa fallibilità delle società in house Tra elaborazione giurisprudenziale e previsioni normative

Ida Giannetti
Membro del Collaboration Group
2021-01-01

Abstract

L’affidamento in house rappresenta un modello organizzatorio per mezzo del quale la Pubblica Amministrazione si avvale, al fine di reperire determinati beni e servizi ovvero per erogare alla collettività prestazioni di pubblico servizio, di un ente strumentale, di soggetti cioè sottoposti al suo penetrante controllo. Il modello dell’in house si presenta, quindi, quale alternativa all’applicazione della disciplina comunitaria in materia di appalti e servizi pubblici. L’assenza di effettiva terzietà del soggetto affidatario rispetto al soggetto affidante, nonché, la possibilità di considerare il primo quale parte integrante e prolungamento organizzativo del secondo, valgono ad escludere in radice l’applicazione della disciplina comunitaria in materia di appalti e servizi pubblici. Invero, l’istituto dell’in house providing[1] è stato elaborato dalla giurisprudenza comunitaria quale figura da contrapporre alle altre due figure contrattuali attraverso le quali si realizza l’opposto dell’in house la cd. esternalizzazione e cioè: il contratto d’appalto e il contratto di concessione[2]. È noto che le due forme contrattuali presentano tuttavia un dato in comune che presuppongono la diversità non soltanto formale ma anche sostanziale fra i contraenti. Pertanto, ciò esclude a priori l’affidamento diretto. Viceversa, le regole concorrenziali per la scelta del contraente non trovano applicazione nel caso dell’affidamento in house trovando applicazione in tal caso il cd. principio di autoorganizzazione, pure riconosciuto in ambito europeo in capo alla P.A.[3]. Ebbene, per effetto di tale principio l’amministrazione, anziché esternalizzare la realizzazione di ciò di cui ha bisogno, può attendervi in proprio, per esempio attraverso un ufficio, un servizio tecnico, una struttura organizzativa inserita all’interno dell’ente stesso. Il vero problema dell’in house nasce laddove la PA affidi la produzione di beni o di servizi di cui ha bisogno non ad un ufficio e dipartimento interno, bensì ad un soggetto societario formalmente distinto dall’ente pubblico, ciò nonostante controllato dall’ente in maniera così penetrante da potersi dire, tenuto conto della sussistenza o meno di un’autonomia decisionale da parte del soggetto societario, che si tratti di un tutt’uno, una parte integrante, una proiezione organizzativa dell’ente. Si pone l’interrogativo quindi dell’affidabilità diretta e senza gara di prestazioni a soggetti societari diversi dall’ente pubblico affidante.
2021
società in house
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.12606/25375
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